Ecuador : il Grande Gioco - Ecuador: The great game
Tra queste il decreto 883 del presidente Lenin Moreno, che determinava la fine dei decennali sussidi statali sul carburante. Questo pacchetto seguiva le richieste di austerity del Fondo monetario internazionale (Fmi) come condizione per rientrare del prestito di 4.2 miliardi, contratto da Moreno nel 2018. Come mai un Paese ricco di petrolio è costretto a chiedere un prestito?
L’accusa al presidente è
di essersi allontanato dalle linee guida della precedente
amministrazione socialista di Rafael Correa, del quale Moreno era
vicepresidente. La sua svolta neoliberista è stata percepita dalle città
più grandi e turistiche come un’apertura importante a investimenti
esteri. Al contrario, le periferie e le campagne, che non beneficiano
direttamente del turismo, hanno subito espropriazioni a causa delle
estrazioni. Nei giorni delle manifestazioni, le comunità e gli studenti,
aiutati da volontari locali, hanno creato dei presidi permanenti
occupando le università e La Casa de la Cultura.
Il 9 ottobre, a soli 900 metri da quest’ultima, i manifestanti
irrompono nell’Assemblea Nazionale al grido di “Moreno vattene”.
Mentre i media internazionali osannavano la rivolta degli indigeni come un movimento di classe contro il governo dei poteri forti, c’è chi racconta la vicenda in altri termini. Secondo alcuni giornalisti, come ad esempio Álvaro Vargas Llosa, editorialista del Washington Post, gli indigeni sono stati strumentalizzati. Ad essere sotto accusa è la Conaie, la più grande associazione di rappresentanza degli indigeni dell’Ecuador. È stata la potente Conaie a chiamare in massa gli indigeni a Quito. L’aumento del prezzo del carburante sarebbe stato solo un pretesto per manifestare contro la svolta neoliberale di Moreno e per chiedere più diritti. È interessante riportare a questo punto il dato sulla libertà personale e sui diritti in Ecuador di Human Rights Watch, che indica la presidenza di Moreno come il punto di svolta verso una società e una stampa più libera e indipendente.
Un altro pezzo del mosaico è da cercare nella struttura sociale e culturale del Paese. In Ecuador convivono varie etnie indigene che sono inquadrate come minoranze, pur contando assieme il 53% della popolazione. Alcune di queste sono gli Achuar, i Shuar, i Kichwa, gli Otavalos e i Waorani, a cui viene riconosciuto un ruolo culturale centrale: a loro si riconosce la potestà della terra e per questo godono di un’aura ieratica. Eppure los indígenas sono quelli che abitano le periferie, i campi, sono i più poveri e gli ultimi, sono gli esclusi della globalizzazione. Per loro sembra non esserci spazio nel nuovo Ecuador.
Miguel Ángel è un attivista di discendenza Otavalos che ha preso parte alle manifestazioni di ottobre: “Mentre sotto la sede del governo c’erano le cariche della polizia, a meno di due isolati la gente andava al centro commerciale, beveva caffè e fumava la pipa come se nulla fosse. Lì ci siamo resi conto che i nostri problemi non interessavano al nostro Paese”. C’è un forte senso di frustrazione tra i manifestanti indigeni, dovuto principalmente al realizzare che, repentinamente, si sta giocando un Risiko sulle loro teste. “Entrambi i Presidenti (Correa e Moreno) hanno venduto il Paese agli stranieri. Il nostro oro verde era il mais e ora ci troviamo con PetrolChina che sfrutta i nostri giacimenti”.
Nel 2019 un tribunale dell’Ecuador ha
confermato una sentenza che impedisce al governo di vendere terreni
nella foresta pluviale alle compagnie petrolifere. Una mossa che gli
attivisti hanno definito una vittoria storica per la tribù indigena
Waorani che vive lì da sempre. Ma nonostante la sentenza, il presidente
Moreno sta spingendo per aprire più foresta pluviale e sviluppare le sue
riserve di petrolio e gas, nella manifesta speranza di risanare
l’economia e ridurre l’elevato deficit fiscale e debito estero. Gli
attivisti sono convinti che dietro ci siano forti pressioni del Fmi e
degli Stati Uniti che cercano di togliere il controllo dei pozzi alle
multinazionali cinesi.
Tutto il Sud America è una polveriera con la miccia innescata, basti citare i tumulti in Cile, Venezuela, Bolivia o Argentina. Da un certo punto di vista è un continente simile all’Africa, dove potenze neo-coloniali e commerciali non si fanno scrupolo alcuno a calpestare governi, a ledere diritti acquisiti e individuali, anche solo per questioni geo-economiche e geopolitiche.
ARTICOLO IN LINGUA INGLESE
Mentre i media internazionali osannavano la rivolta degli indigeni come un movimento di classe contro il governo dei poteri forti, c’è chi racconta la vicenda in altri termini. Secondo alcuni giornalisti, come ad esempio Álvaro Vargas Llosa, editorialista del Washington Post, gli indigeni sono stati strumentalizzati. Ad essere sotto accusa è la Conaie, la più grande associazione di rappresentanza degli indigeni dell’Ecuador. È stata la potente Conaie a chiamare in massa gli indigeni a Quito. L’aumento del prezzo del carburante sarebbe stato solo un pretesto per manifestare contro la svolta neoliberale di Moreno e per chiedere più diritti. È interessante riportare a questo punto il dato sulla libertà personale e sui diritti in Ecuador di Human Rights Watch, che indica la presidenza di Moreno come il punto di svolta verso una società e una stampa più libera e indipendente.
Un altro pezzo del mosaico è da cercare nella struttura sociale e culturale del Paese. In Ecuador convivono varie etnie indigene che sono inquadrate come minoranze, pur contando assieme il 53% della popolazione. Alcune di queste sono gli Achuar, i Shuar, i Kichwa, gli Otavalos e i Waorani, a cui viene riconosciuto un ruolo culturale centrale: a loro si riconosce la potestà della terra e per questo godono di un’aura ieratica. Eppure los indígenas sono quelli che abitano le periferie, i campi, sono i più poveri e gli ultimi, sono gli esclusi della globalizzazione. Per loro sembra non esserci spazio nel nuovo Ecuador.
Miguel Ángel è un attivista di discendenza Otavalos che ha preso parte alle manifestazioni di ottobre: “Mentre sotto la sede del governo c’erano le cariche della polizia, a meno di due isolati la gente andava al centro commerciale, beveva caffè e fumava la pipa come se nulla fosse. Lì ci siamo resi conto che i nostri problemi non interessavano al nostro Paese”. C’è un forte senso di frustrazione tra i manifestanti indigeni, dovuto principalmente al realizzare che, repentinamente, si sta giocando un Risiko sulle loro teste. “Entrambi i Presidenti (Correa e Moreno) hanno venduto il Paese agli stranieri. Il nostro oro verde era il mais e ora ci troviamo con PetrolChina che sfrutta i nostri giacimenti”.
Le manifestazioni di
ottobre sono solo la punta dell’iceberg. Infatti, l’ultimo pezzo del
mosaico, forse l’apicale, è da individuare nel rapporto degli
ecuadoriani con la loro maggior risorsa: il petrolio. Basta passare
qualche tempo tra la gente per rendersi conto di esser di fronte a una
sindrome di Stoccolma collettiva, dove tutti hanno un rapporto di
dipendenza psicologica con l’oro nero. Dalla commercializzazione de “el crudo”, cioè del petrolio grezzo, l’Ecuador ricava circa il 50% del suo Pil.
Da Coca si entra in quello che è oggi il parco dello Yasuní. Qui il turismo è oro, come lo è il petrolio. La via Auca percorre perpendicolarmente la giungla e sembra una cicatrice nel verde della foresta pluviale. La strada è intervallata da chiese e piccoli agglomerati urbani, dove vivono i lavoratori dei pozzi, quasi tutti di etnia Shuar. Di continuo transitano autocisterne che creano una piccola economia di passaggio. Sui cigli spuntano minuscoli supermercati che vendono Coca-Cola e altri prodotti importati dagli Stati Uniti.
La famiglia di Gaba vive sulla costa destra del fiume Shiripune, nella foresta amazzonica, a cinque ore di barca dall’ultimo centro abitato. La lingua parlata è il Sabela, una lingua non scritta forse più antica del latino. Un suo nipote, Nenkerey, che parla spagnolo, dice che Gaba va pazzo per la Coca-Cola.
Da Coca si entra in quello che è oggi il parco dello Yasuní. Qui il turismo è oro, come lo è il petrolio. La via Auca percorre perpendicolarmente la giungla e sembra una cicatrice nel verde della foresta pluviale. La strada è intervallata da chiese e piccoli agglomerati urbani, dove vivono i lavoratori dei pozzi, quasi tutti di etnia Shuar. Di continuo transitano autocisterne che creano una piccola economia di passaggio. Sui cigli spuntano minuscoli supermercati che vendono Coca-Cola e altri prodotti importati dagli Stati Uniti.
La famiglia di Gaba vive sulla costa destra del fiume Shiripune, nella foresta amazzonica, a cinque ore di barca dall’ultimo centro abitato. La lingua parlata è il Sabela, una lingua non scritta forse più antica del latino. Un suo nipote, Nenkerey, che parla spagnolo, dice che Gaba va pazzo per la Coca-Cola.
Tutto il Sud America è una polveriera con la miccia innescata, basti citare i tumulti in Cile, Venezuela, Bolivia o Argentina. Da un certo punto di vista è un continente simile all’Africa, dove potenze neo-coloniali e commerciali non si fanno scrupolo alcuno a calpestare governi, a ledere diritti acquisiti e individuali, anche solo per questioni geo-economiche e geopolitiche.
L’Ecuador è come molti Paesi africani: un quadrante di una scacchiera dove molti vorrebbero posizionare il proprio alfiere o cavallo; una partita solo sospesa, dove le pedine sono state appena schierate.
ARTICOLO IN LINGUA INGLESE
Commenti
Posta un commento