Reportage – Ebola, The Outbreak – Part 4
Testo di Daniele Bellocchio
Foto di Marco Gualazzini
I ricordi sono prigioni crudeli quando, persa la
speranza e la misericordia dell’illusione, la vita sprofonda nella
malinconia del passato. I ricordi sono però anche il combustibile che
anima i gesti folli, che annienta la cautela paralizzante e l’ordine
prestabilito del senso comune. Sono salvezza quando dalla memoria ha
origine l’audacia che mantiene viva la fiducia, sebbene tutto sia stato
dato perduto.
“Mia mamma mi amava, sì, lei mi amava e voleva che io mi diplomassi. Mi aiutava con lo studio, mi è sempre stata vicina e oggi, se sono riuscito a diplomarmi, è perché pensavo a lei e so che mi ha aiutato”. Claude Mabowa ha 21 anni, mi parla a tre metri di distanza, ci separa una rete arancione: non possiamo neanche stringerci la mano, ma solo guardarci e ascoltarci perché Claude è ancora positivo al virus ebola. È fuori pericolo, si trova nell’ala riservata ai convalescenti, ma nel suo sangue, nel suo corpo, ci sono ancora le tracce del morbo. La sua voce, il suo essere statuario, laddove tutto è genuflesso alla morte, lo rendono un mistico della sopravvivenza. È permeato da un dolore che spaventa, ha ancora sul volto le tracce della paura che pietrifica il coraggioso e di cui si percepisce il fremito.
“Mia mamma mi amava, sì, lei mi amava e voleva che io mi diplomassi. Mi aiutava con lo studio, mi è sempre stata vicina e oggi, se sono riuscito a diplomarmi, è perché pensavo a lei e so che mi ha aiutato”. Claude Mabowa ha 21 anni, mi parla a tre metri di distanza, ci separa una rete arancione: non possiamo neanche stringerci la mano, ma solo guardarci e ascoltarci perché Claude è ancora positivo al virus ebola. È fuori pericolo, si trova nell’ala riservata ai convalescenti, ma nel suo sangue, nel suo corpo, ci sono ancora le tracce del morbo. La sua voce, il suo essere statuario, laddove tutto è genuflesso alla morte, lo rendono un mistico della sopravvivenza. È permeato da un dolore che spaventa, ha ancora sul volto le tracce della paura che pietrifica il coraggioso e di cui si percepisce il fremito.
Ma è custode di una rara sacralità, quella di cui sono latori i pochi che hanno osato ribellarsi all’imposizione di vivere con lo sguardo e il pensiero rivolti costantemente al ricordo dell’ ultimo momento prima della tragedia. C’è riverenza e non compassione, nell’immergersi nella sua storia, portatrice di un dramma difficile da concepire, ma anche di quell’orgoglio degli ultimi capaci del gesto folle di ribellarsi a un destino prescritto, a un’ingiustizia senza risposte. “La prima ad ammalarsi è stata mia sorella. Ed è stata anche la prima a morire. In casa non ci siamo subito accorti che si trattava d’ebola, perché lei soffriva d’asma e quindi pensavamo che il suo malessere, la sua difficoltà a respirare fossero legati a quella patologia. Invece era il virus e mentre l’assistevamo ci siamo infettati tutti”.
Claude è uno dei sopravvissuti all’ebola e trascorre le giornate in una zona del Centro di trattamento che è stata deputata a tutti coloro che sono fuori pericolo ma nel cui organismo è ancora presente il virus. I convalescenti vengono dimessi solo nel momento in cui risultano negativi ai test e nel loro corpo non ci sono più tracce dell’infezione. È un limbo dell’attesa costante, dove i pensieri si rincorrono senza sosta, senza dare tregua. “Dopo che mi hanno detto che ero fuori pericolo, io non potevo crederci: non me ne capacitavo, ormai mi ero rassegnato all’idea di morire”.
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Africa, Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu; Beni, 29 luglio 2019. Uno scorcio della città di Beni |
C’è impotenza e frustrazione e una pena infinita, furiosa, nell’ascoltare il racconto della donna e accettare l’esistenza di un male che sopravvive alla morte stessa e prosciuga di ogni significato la bellezza di essere ancora vivi.
Source : Inside Over
Articolo in Inglese : Anonymous War in the Eye
Anonymous Mirror Zero
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