Reportage – Ebola, The Outbreak – Part 2
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Africa, Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu; Butembo, 30 luglio 2019. Uno scorcio di Butembo |
Testo di Daniele Bellocchio
Foto di Marco Gualazzini
Nord Kivu, est della Repubblica democratica del Congo: è una terra questa dove si coltiva il margine pericoloso delle cose. Vita e morte non hanno confini, la fede vacilla e il male è una tautologia cristallizzata nelle epoche.
Un cielo di nubi di tenebra si unisce al verde e al nero di una foresta feroce che tutto circonda e travolge. Appena ci si imbatte nella natura matrigna dell’Africa equatoriale, ecco che le gambe arrancano nel fango, i polmoni ansimano nell’umidità e l’anima si infetta nelle storie. Quaggiù, infatti, in un presente di miserie perpetue, con prepotenza, ferocie che si pensavano defunte sono riapparse come per una maledizione. Si uccide in nome della tavola di Mendeleev, si tortura per un bottino di elemosine e si violenta per assassinare la pietà e la più lontana eco di rimorso. E oggi si muore anche divorati da un morbo che spaventa come la peste perché, nell’abisso d’ombra della foresta congolese, si sta consumando la prima epidemia di ebola della storia in un contesto di guerra, la più spietata per numero di bambini contagiati.
Un check-point presieduto da militari e polizia, una fila di persone che attendono di farsi misurare la febbre e di lavarsi le mani con una soluzione di acqua e cloro e, intanto, un altoparlante che salmodia, con voce metallica e spettrale, ininterrottamente, le precauzioni da adottare. All’ingresso delle città congolesi, da quando è scoppiata l’infezione, sono stati allestiti posti di blocco dove vengono eseguiti controlli serrati. Personale sanitario e forze dell’ordine passano in esame tutti coloro che transitano ed eseguono le operazioni indossando mascherine e guanti. Nessuno osa più darsi la mano nelle terre colpite dall’ebola: un colpo con il gomito vale quanto una stretta formale, altrimenti nessun altro contatto, nessun saluto, nessuno attenzione al prossimo: ciascuno è solo con la propria psicosi. Il megafono non smette di gracchiare e urlare l’esistenza del virus, tutti si sottopongono al lavaggio delle mani e alla misurazione della temperatura corporea; poi la sbarra si alza, un cartello su cui sono disegnate con dovizia di particolari le fasi dell’infezione illustra come si muore a causa del virus e, superato il manifesto informativo, si entra nella città di Beni: l’epicentro dell’epidemia.
Da agosto 2018 nelle regioni settentrionali della Repubblica democratica del Congo, Paese sconvolto da decenni di guerra civile, tra i più poveri al mondo e con oltre quattro milioni di rifugiati interni, si sono registrati oltre 3mila contagi dovuti alla malattia, i decessi sono più di 2mila, il 30% sono minori e il tasso di mortalità, intorno al 67%, è tra i più alti mai registrati.
A spiegare la quotidianità a Beni è il dottore Joel Efoloko, che lavora nel centro di trattamento, dove vengono trasportati gli ammalati. L’ospedale è sorto come un fortilizio contro il morbo, una trincea nella prima linea della guerra alla malattia. Il personale si prepara; una sacrale ripetizione dei gesti caratterizza la vestizione di medici e infermieri prima che facciano il loro ingresso nella zona ad alto rischio, poi marciano, dentro armature ermetiche e protetti da maschere e stivali, ed entrano in stanze trasparenti dove sono ricoverati i pazienti.
Inizia così l’incessante lotta contro il tempo per salvare vite umane. In una tenda c’è una donna incinta, in un’altra due neonati e un bambino col corpo divorato dalle piaghe, poco distante c’è Eliel, dieci anni e con la maglietta e i pantaloni sporchi di sangue: è in coma e respira grazie a una maschera dell’ossigeno. Il padre lo osserva dall’esterno della tenda, con gli occhi gonfi di quelle lacrime che rivelano l’accettazione della separazione, che è una condanna per i sopravvissuti a scontare la pena del proprio vivere in compagnia soltanto di quello che è stato e orfani di ciò che si spera.
È l’abbandono a rendere negli uomini acuto il sentimento di ingiustizia e la consapevolezza di una vulnerabilità al destino. Il futuro non esiste nel momento in cui centinaia di padri e madri hanno sepolto i propri figli e il numero di bambini ammalati continua ad aumentare. A Beni e nel centro di trattamento arriva un fuoristrada adattato ad ambulanza. All’interno c’è Este, che ha in braccio Betinette, sua figlia di sette mesi. La bambina ha impressi sul corpo i segni della malattia e la madre la stringe a sé, non vuole darla ai medici: sa che non la potrà mai più rivedere e che non avrà mai più modo di baciarla e di cullarla. Infettivologi e infermieri insistono, protendono le braccia, parlano di terapia, di estremo tentativo di curarla, ma lei stringe a sé il piccolo corpo febbricitante ormai privo di forze, accarezza la testa che ciondola con dolce abbandono tra le sue braccia e supplica che le venga concessa almeno il tempo di un addio.
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Africa, Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu; Beni, 27 luglio 2019. Esta Kitama abbraccia la figlia di sette mesi, sospetta di aver contratto l’Ebola |
Source : Inside Over
Articolo in Inglese : Anonymous War in the Eye
Anonymous Mirror Zero
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